Con Cristo chiave, cuore e fine delle storia
Gesù è “la chiave, il centro e il fine dell’uomo nonché di tutta la storia umana”: così si legge nella Costituzione dogmatica Gaudium et spes al n. 10. Al n. 45 lo stesso documento del Concilio Vaticano II, raccogliendo una felice espressione di papa Paolo VI, aggiunge che “il Signore è il fine della storia umana, ‘il punto focale dei desideri della storia e della civiltà’, il centro del genere umano, la gioia d’ogni cuore, la pienezza delle loro aspirazioni”[1].
Proprio nei momenti in cui si sentono particolarmente accentuate le “crisi”, non solo negli aspetti economici ma soprattutto quando si tratta di valori, di cultura o di continuità della propria tradizione, identità, appartenenze ecc., e quando si avverte – specie tra le giovani generazioni, anche di religiosi e religiose – un diffuso senso di disorientamento e di sfiducia, diventa ancora più essenziale ricordare, e testimoniare con la vita, come Gesù Cristo sia veramente la chiave, il centro e il fine di tutta la storia umana. Papa Benedetto XVI lo ha richiamato nel suo ultimo intervento dell’anno 2011: “Annunciare la fede nel Verbo fatto carne, infatti, è il cuore della missione della Chiesa e l’intera comunità ecclesiale deve riscoprire con rinnovato ardore missionario questo compito imprescindibile”[2]. Ed è questo anche uno dei compiti di cui è sempre investita la vita consacrata. Ma come realizzarlo?
In tempi di “ridimensionamento” e di “fiato corto” di numeri e di strutture, non sembra forse troppo anacronistico guardare, anche come religiosi e religiose, alla responsabilità affidataci di essere cooperatori, anche oggi, della Provvidenza di Dio, artefici e promotori di cultura e costruttori di storia? Eppure è una consegna che “appare ancor più chiaramente se teniamo presente l’unificazione del mondo e il compito che ci si impone di costruire un mondo migliore nella verità e nella giustizia. In tal modo siamo testimoni della nascita d’un nuovo umanesimo, in cui l’uomo si definisce anzitutto per la sua responsabilità verso i suoi fratelli e verso la storia” (GS, 55).
Sono preziose proprio oggi queste indicazioni della Gaudium et spes che fin dal suo inizio, e poi in vari altri punti, sottolinea la reale e intima solidarietà della comunità dei cristiani con tutto il genere umano e la sua storia, in un mondo che “è teatro della storia del genere umano, e reca i segni degli sforzi dell’uomo, delle sue sconfitte e delle sue vittorie” (n. 2). E ad esse non possiamo rimanere indifferenti, perché ne siamo parte.
Come guardare, allora, alla storia? Così ci insegna papa Benedetto XVI: “Non poche volte si è raggiunti dall’interrogativo: quale senso possiamo dare ai nostri giorni? Quale senso, in particolare, possiamo dare ai giorni di fatica e di dolore? Questa è una domanda che attraversa la storia, anzi attraversa il cuore di ogni generazione e di ogni essere umano. Ma a questa domanda c’è una risposta: è scritta nel volto di un Bambino che duemila anni fa è nato a Betlemme e che oggi è il Vivente, per sempre risorto da morte. Nel tessuto dell’umanità lacerato da tante ingiustizie, cattiverie e violenze, irrompe in maniera sorprendente la novità gioiosa e liberatrice di Cristo Salvatore… Dio eterno è entrato nella nostra storia e rimane presente in modo unico nella persona di Gesù”[3].
Credere alla Provvidenza
Proprio alla luce di questa verità non solo è possibile ma è “doveroso” uno sguardo sapienziale e dunque anche provvidenziale sulla storia individuale e collettiva dell’umanità. È questo anzitutto uno dei patrimoni che ci viene consegnato dai nostri santi, che guardavano agli eventi del loro tempo valorizzandone tutti gli aspetti positivi e nel contempo sapevano leggere anche quelli negativi, pur inestricabili nella loro dimensione di mistero, alla luce della fede.
Dal punto di vista della cultura teologica è interessante notare, per esempio, come Tommaso d’Aquino (1225-1274) abbia dedicato nella Summa contra Gentiles ben 34 capitoli al tema della Provvidenza[4], proprio per affermare che Dio governa il mondo con la sua onnipotente sapienza (cap. 64), e che tuttavia la divina provvidenza non esclude completamente il male dalle cose (cap. 71), la loro contingenza (cap. 72), l’esercizio del libero arbitrio (cap. 73), la fortuna e il caso (cap. 74). L’attuazione della divina provvidenza, di cui possiamo essere certi (cap. 94), si realizza attraverso tante mediazioni (causae secundae e causae proximae, cf. cap. 77), sia quelle che giudichiamo favorevoli, sia quelle che al nostro sguardo appaiono sfavorevoli.
Anche nel De Veritate san Tommaso presenta una concezione della Provvidenza secondo la quale Dio non solo sorregge tutte le cose attraverso la sua bontà, ma fa in modo che le cose stesse siano “così somiglianti alla sua capacità d’amore diffusiva e comunicativa, tanto da partecipare alla sua liberalità, provvedendo al bene altrui. Questa è la vera concezione ‘provvidenziale’ della storia portata dalla Parola di Dio. Non solo avere per sé la provvidenza, ma essere provvidenti per gli altri”[5]. Scrive: “Dio ha voluto comunicare, per quanto è possibile, alle creature, la perfezione della sua bontà…, cosicché la realtà creata riceve dalla divina bontà non solo l’essere, e di essere buona, ma anche di donare agli altri sia l’essere che la bontà; come il sole che con la diffusione dei suoi raggi, non solo illumina i corpi, ma li rende oltre che luminosi anche capaci di illuminare”[6].
La testimonianza di tanti santi costituisce una conferma della verità espressa nelle parole di Rm 8, 28: “Tutto concorre al bene di coloro che amano Dio”[7]. Afferma a proposito Giuliana di Norwich (1342-1416): “Imparai dalla grazia di Dio che dovevo rimanere fermamente nella fede, e quindi dovevo saldamente e perfettamente credere che tutto sarebbe finito in bene… Tu stessa vedrai che ogni specie di cosa sarà per il bene”[8].
Santa Caterina da Siena (1347-1380) a sua volta così risponde a coloro che si scandalizzano e si ribellano davanti a ciò che capita loro: “Tutto viene dall’amore, tutto è ordinato alla salvezza dell’uomo, Dio non fa niente se non a questo fine”[9]. E san Tommaso Moro (1478-1535) così consola la figlia poco prima del martirio: “Non accade nulla che Dio non voglia, e io sono sicuro che qualunque cosa avvenga, per quanto cattiva appaia, sarà in realtà sempre per il meglio”[10].
Stimolante quanto scrive sant’Alfonso Maria de Liguori (1696-1787) negli 11 punti che ritmano il Ristretto dell’opera che dà avvio al suo testo intitolato Condotta ammirabile della divina provvidenza in salvare l’uomo per mezzo di Gesù Cristo[11]. È interessante cogliere fin dalle prime righe lo sguardo provvidenziale sulla storia del fondatore dei Redentoristi: “Intendiamo di mettere in prospettiva quanto ha fatto Iddio per rendere felice l’uomo in questa vita e nell’altra vita… Quindi su questo fondamento andremo noi scorgendo nella presente opera quanto è stata ammirabile la condotta da Dio tenuta nell’eseguire per mezzo di tanti prodigi il suo amoroso disegno di rendere l’uomo beato”[12].
La conclusione dell’opera, che ripercorre non solo la “storia sacra” del Primo e del Nuovo Testamento, ma anche vari momenti della storia civile, scorgendone l’azione provvidenziale di Dio non solo nonostante ma anche attraverso le “crisi” e le avversità, così si esprime a proposito della fine della storia e del Giudizio finale, in cui “Iddio manifesterà agli uomini la rettitudine e saviezza di tutta la sua condotta nel governo del mondo”: “e tutto allora ridonderà in esaltazione della divina gloria, per la quale Iddio ha creato il mondo, come si disse da principio”[13].
Edith Stein, Teresa Benedetta della Croce (1891-1942), la santa martire Patrona d’Europa che ci consegna una vera e propria “scientia crucis”, affermava di fronte a tutte le drammatiche vicissitudini da lei affrontate: “Quando penso al meraviglioso mosaico degli interventi di Dio nella nostra vita, mi si riempie il cuore di nuova riconoscenza”.
E ancora Chiara Lubich (1920-2008): “Gioia e dolori, nascite e morti, angosce ed esultazioni, fallimenti e vittorie, incontri, conoscenze, lavoro, malattie e disoccupazioni, guerre e flagelli, sorriso di bimbi, affetto di madri, tutto, tutto è materia prima della nostra santità… E un misterioso legame di amore lega uomini e cose, conduce la storia, ordina il fine dei popoli e dei singoli, nel rispetto della più alta libertà. Dopo alcun tempo che l’anima abbandonata a Dio ha fatto per sua legge ‘credere all’amore’ (cf. 1 Gv 4, 16), Dio vi si manifesta ed ella, aprendo nuovi occhi, vede che da ogni prova raccoglie nuovi frutti, che ad ogni lotta segue una vittoria, che su ogni lacrima fiorisce un sorriso nuovo, sempre nuovo, perché Dio è la Vita, che permette la tortura, il male, per un bene più grande. Comprende come la via di Gesù non culmini nella via crucis e nella morte, ma nella risurrezione e nell’ascensione al Cielo. ‘Non c’è spina senza rosa’”[14].
Tutto il nostro tempo è ormai riempito di pienezza
All’inizio di ogni anno la liturgia della Chiesa, nella seconda lettura della messa del 1 gennaio, ripresenta l’annuncio gioioso che l’apostolo Paolo rivolgeva ai cristiani della Galazia: “Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l’adozione a figli” (Gal 4, 4-5). Così Benedetto XVI ha recentemente commentato questi due versetti: “Queste parole raggiungono il cuore della storia di tutti e la illuminano, anzi la salvano, perché dal giorno del Natale del Signore è venuta a noi la pienezza del tempo. Non c’è, dunque, più spazio per l’angoscia di fronte al tempo che scorre e non ritorna; c’è adesso lo spazio per una illimitata fiducia in Dio, da cui sappiamo di essere amati, per il quale viviamo e al quale la nostra vita è orientata in attesa del suo definitivo ritorno. Da quando il Salvatore è disceso dal Cielo, l’uomo non è più schiavo di un tempo che passa senza un perché, o che è segnato dalla fatica, dalla tristezza, dal dolore. L’uomo è figlio di un Dio che è entrato nel tempo per riscattare il tempo dal non senso o dalla negatività e che ha riscattato l’umanità intera, donandole come nuova prospettiva di vita l’amore, che è eterno. La Chiesa vive e professa questa verità ed intende proclamarla ancora oggi con rinnovato vigore spirituale”[15].
Se pur la storia umana tutta intera si presenta indubbiamente “pervasa da una lotta tremenda contro le potenze delle tenebre; lotta cominciata fin dall’origine del mondo, destinata a durare, come dice il Signore, fino all’ultimo giorno” (GS, 37), tuttavia di fronte ai pessimismi di ogni genere sappiamo che alla luce del mistero di Cristo trova vera luce anche il mistero stesso della storia: è proprio la singolarità unica di Cristo a conferirGli “un significato assoluto e universale, per cui mentre è nella storia, è il centro e il fine della stessa storia: ‘Io sono l’alfa e l’omega, il primo e l’ultimo, il principio e la fine’ (Ap 22, 13)”[16]. La Sua vita ha infatti questa tipica virtualità del valore universale della Sua azione[17], ed è per questo che la considerazione del Suo mistero di passione, morte e resurrezione apre ad una visione unitaria dell’intera storia umana di cui Cristo è il centro pulsante di vita, perché ad ogni suo “tornante”, dal principio alla fine, Egli giunge con la Sua efficacia salvifica.
Per questo la dimensione cristologica e trinitaria illumina lo sguardo cristiano sulla Provvidenza, che viene così espresso dal Catechismo della Chiesa Cattolica: “La creazione ha la sua propria bontà e perfezione, ma non è uscita dalle mani del Creatore interamente compiuta. È creata ‘in stato di via’ (‘in statu viae’) verso una perfezione ultima alla quale Dio l’ha destinata, ma che ancora deve essere raggiunta. Chiamiamo divina provvidenza le disposizioni per mezzo delle quali Dio conduce la creazione verso questa perfezione. La testimonianza della Scrittura è unanime: la sollecitudine della divina Provvidenza è concreta e immediata; essa si prende cura di tutto, dalle più piccole cose fino ai grandi eventi del mondo e della storia. Con forza, i Libri Sacri affermano la sovranità assoluta di Dio sul corso degli avvenimenti: ‘Il nostro Dio è nei cieli, egli opera tutto ciò che vuole’ (Sal 115, 3); e di Cristo si dice: ‘Quando egli apre, nessuno chiude, e quando chiude, nessuno apre’ (Ap 3, 7); ‘Molte sono le idee nella mente dell’uomo, ma solo il disegno del Signore resta saldo’ (Pr 19, 21)”[18].
La Chiesa crede dunque fermamente che è Dio il Signore della storia e del mondo, anche se spesso ci rimangono sconosciute le vie della sua Provvidenza: “Solo alla fine, quando avrà termine la nostra conoscenza imperfetta e vedremo Dio ‘a faccia a faccia’ (1 Cor 13, 12), conosceremo pienamente le vie lungo le quali, anche attraverso i drammi del male e del peccato, Dio avrà condotto la sua creazione fino al riposo di quel Sabato definitivo, in vista del quale ha creato il cielo e la terra” (CCC, 304).
Impotenza umana e impotenza divina
Non è dunque possibile guardare “cristianamente” alla storia fuori dalla considerazione del mistero dell’amore di Dio, anzi di Dio-Amore: “Senza credere che l’Amore di Dio è onnipotente, – afferma il Catechismo della Chiesa Cattolica – come credere che il Padre abbia potuto crearci, il Figlio riscattarci, lo Spirito Santo santificarci?” (n. 278).
E solo in questa luce si può accostare anche il mistero dell’apparente impotenza di Dio, quando la fede in Dio Padre onnipotente può essere messa alla prova dall’esperienza del male e della sofferenza: “Talvolta Dio può sembrare assente ed incapace di impedire il male. Ora, Dio Padre ha rivelato nel modo più misterioso la sua onnipotenza nel volontario abbassamento e nella risurrezione del Figlio suo, per mezzo dei quali ha vinto il male. Cristo crocifisso è quindi ‘potenza di Dio e sapienza di Dio. Perché ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini’ (1 Cor 1, 25). Nella risurrezione e nella esaltazione di Cristo il Padre ha dispiegato ‘l’efficacia della sua forza’ e ha manifestato ‘la straordinaria grandezza della sua potenza verso di noi credenti’ (Ef 1, 19-22). Soltanto la fede può aderire alle vie misteriose dell’onnipotenza di Dio. Per questa fede, ci si gloria delle proprie debolezze per attirare su di sé la potenza di Cristo” (CCC, nn. 272-273).
Il brano evangelico di Luca 13, 1-5, in cui Gesù viene interpellato a proposito di due fatti luttuosi, uno di carattere direttamente morale e uno di carattere più naturale, può risultare emblematico per tante situazioni che a volte vengono lette e giudicate con queste categorie anche in contesti di vita consacrata e di fede convintamente professata. Di fronte alle facili conclusioni di considerare il male come effetto della punizione divina, Gesù nella sua risposta, come ha commentato Benedetto XVI, “restituisce la vera immagine di Dio, che è buono e non può volere il male, e mettendo in guardia dal pensare che le sventure siano l’effetto immediato delle colpe personali di chi le subisce, afferma: ‘Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? No, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo’ (Lc 13, 2-3). Gesù invita a fare una lettura diversa di quei fatti, collocandoli nella prospettiva della conversione: le sventure, gli eventi luttuosi, non devono suscitare in noi curiosità o ricerca di presunti colpevoli, ma devono rappresentare occasioni per riflettere, per vincere l’illusione di poter vivere senza Dio, e per rafforzare, con l’aiuto del Signore, l’impegno di cambiare la vita…
Ma la possibilità di conversione esige che impariamo a leggere i fatti della vita nella prospettiva della fede, animati cioè dal santo timore di Dio. In presenza di sofferenze e lutti, vera saggezza è lasciarsi interpellare dalla precarietà dell’esistenza e leggere la storia umana con gli occhi di Dio, il quale, volendo sempre e solo il bene dei suoi figli, per un disegno imperscrutabile del suo amore, talora permette che siano provati dal dolore per condurli a un bene più grande”[19].
Tante domande esistenziali affiorano, di fronte ai drammi del male fisico e morale, delle calamità e disgrazie, delle conseguenze del peccato, del mistero del dolore, dell’handicap[20] ecc.
La storia personale e collettiva è, e resta, un enigma. Il cristiano, come del resto ogni altro uomo, non è in grado in pienezza di discernere nei particolari le vie e i mezzi tramite cui la storia è avviata verso quella fine di cui non sa né quando né come giungerà. Ciò che costituisce la realtà profonda della storia è, infatti, per sua natura qualcosa che non è di ordine esperibile sensibilmente, e sfugge per larga parte alla nostra visione[21].
Tuttavia, nonostante la sua “drammaticità”, da cui spesso si prende avvio per una messa in discussione proprio dell’esistenza e dell’onnipotenza e bontà di Dio, quasi “gridando” a Lui, lo sguardo sulla storia alla luce della salvezza operata da Dio nel suo Figlio fatto uomo, morto e risorto, mostra proprio – come afferma ancora Benedetto XVI – che “per il credente non è possibile pensare che Egli sia impotente, oppure che ‘stia dormendo’ (cf. 1 Re 18, 27). Piuttosto è vero che perfino il nostro gridare è, come sulla bocca di Gesù in croce, il modo estremo e più profondo per affermare la nostra fede nella sua sovrana potestà. I cristiani infatti continuano a credere, malgrado tutte le incomprensioni e confusioni del mondo circostante, nella ‘bontà di Dio’ e nel ‘suo amore per gli uomini’ (Tt 3, 4). Essi, pur immersi come gli altri uomini nella drammatica complessità delle vicende della storia, rimangono saldi nella certezza che Dio è Padre e ci ama, anche se il suo silenzio rimane incomprensibile per noi” (DCE, 38). La fede biblica insegna infatti che Dio è il Signore della storia. Ciò offre la sicurezza di non essere in preda ad un destino cieco, ma nelle mani di un Padre amoroso: Egli infonde all’uomo la fiducia e la speranza di poter raggiungere un mondo migliore, e lo convoca a farsene egli stesso artefice.
Scrive Chiara Lubich: “Quando si è conosciuto il dolore in tutte le sfumature più atroci, nelle angosce più varie, e si son tese le mani a Dio in mute strazianti implorazioni, in sommesse grida di aiuto; quando si è bevuto il fondo del calice e si è offerta a Dio, per giorni e per anni, la propria croce, confusa con la sua, che la valorizza divinamente, allora Dio ha pietà di noi e ci accoglie nella sua unione. È il momento in cui, dopo aver esperimentato il valore unico del dolore, dopo aver creduto all’economia della croce ed averne visto gli effetti benefici, Dio mostra in forma più alta e nuova qualcosa che vale più ancora del dolore”[22]. Una “divina alchimia”.
Costruire la storia custodendo la Sua presenza tra noi
Lo scrittore italiano Gianni Rodari ha intitolato L’anno nuovo una delle sue Filastrocche in cielo e in terra, che così recita:
“Indovinami indovino,
tu che leggi nel destino:
l'anno nuovo come sarà?
Bello, brutto, o metà e metà?
‘Trovo stampato nei miei libroni
che avrà di certo quattro stagioni,
dodici mesi, ciascuno al suo posto,
un carnevale e un ferragosto,
e il giorno dopo del lunedì
avrà sempre un martedì.
Di più per ora scritto non trovo
nel destino dell’anno nuovo:
per il resto anche quest'anno
sarà come gli uomini lo faranno’”.
La nostra fede cristiana e l’adesione totale a Dio attraverso la vita consacrata ci consegnano una formidabile responsabilità storica, perché l’esistenza umana non è in balìa di forze impersonali legate ai processi naturali e storici, ma “la nostra casa può essere costruita sulla roccia: noi possiamo progettare la nostra storia, la storia dell’umanità non nell’utopia ma nella certezza che il Dio di Gesù Cristo è presente e ci accompagna”[23].
Siamo infatti resi partecipi di quella sinergia tra la creatura e la potenza creatrice di Dio (sin-ergoi, dice san Paolo in 1 Cor 3, 19): “Dato che le creature tendono sotto molti aspetti a somigliare a Dio, resta loro un’ultima cosa per acquistare la somiglianza divina: essere causa delle altre creature. Donde Dionigi può scrivere che ‘la cosa più divina tra tutte è diventare cooperatori di Dio’, secondo il detto dell’Apostolo: Siamo gli aiutanti di Dio”[24]. Ed un Dio Trinità ci invita a realizzare ciò sempre più insieme.
Essere dunque un segno, e questa è una delle dimensioni costitutive della vita consacrata, che “l’uomo infatti non è limitato al solo orizzonte temporale, ma vivendo nella storia umana, conserva integralmente la sua vocazione eterna” (GS, 76) così che – insieme – “vivificati e radunati nel suo Spirito, come pellegrini andiamo incontro alla finale perfezione della storia umana, che corrisponde in pieno al disegno del suo amore” (GS, 45).
Nietzsche soleva dire che “chi ha un perché nella vita, può sopportare quasi ogni come”, e l’amore fa diventare questo “per-chè” un “per-chi”, aprendo alla comunione a tutti i livelli. Nella enciclica Deus caritas est appare più volte l’espressione “storia d’amore”: intendendo l’amore come cammino, come processo storico mai concluso e completato, si afferma che la storia d’amore tra Dio e l’uomo consiste proprio “nel fatto che questa comunione di volontà cresce in comunione di pensiero e di sentimento e, così, il nostro volere e la volontà di Dio coincidono sempre di più” (n. 17). In questo senso possiamo essere costruttori e costruttrici delle nostre congregazioni, e della Chiesa, come Dio le vorrà in futuro.
Il Padre ha rivelato il suo amore in Cristo, che è la chiave, il cuore e il fine non solo della storia della Chiesa, ma anche della storia dell’umanità, perché in Lui tutto si ricapitola (cf. Ef 1, 10; Col 1, 15- 20). Per, con e in Lui si è costantemente chiamati a entrare nel novum del perenne dinamismo dell’amore del Padre comunicato ai nostri cuori per mezzo dello Spirito: una chiamata che “ontologicamente” arriva sempre e ovunque, e per questo “feconda” tutta la storia, mostrando che l’unico vero male è il non amare, il chiudersi alla relazione, in non vivere perché l’altro sia.
In Gesù vivo e presente tra noi trovano così il loro senso più autentico tutte le vere prospettive e progettualità, perché da esso promanano e si distinguono, e verso di esso convergono in unità. E in Lui troviamo ricapitolati, con l’intero cosmo, anche tutti i desideri della storia e della civiltà, e con essi l’intero valore di ogni responsabilità storica dell’agire umano – anche quella dei nostri piccoli e a volte nascosti gesti quotidiani –, proprio perché grazie a Lui ogni tempo è riempito del “sapore” dell’eternità. Per questo “i santi sono i veri portatori di luce all’interno della storia, perché sono uomini e donne di fede, di speranza e di amore” (DCE, n. 40). Nell’amore, infatti, si trova l’energia principale per cogliere il senso ultimo della storia e per poterlo realizzare, e per provare il “gusto” della costruzione.
Si narra che “il Re di Francia si recò un giorno fuori Parigi per vedere come procedevano i lavori della nuova cattedrale di Chartres. Arrivato nel cantiere si avvicinò a tre operai che stavano lavorando insieme ad un grossa pietra, ma notò che non tutti si adoperavano con lo stesso stato d’animo. ‘Tu, che cosa stai facendo?’, chiese il Re al primo degli operai. ‘Sto intagliando una pietra’, rispose affaticato e cupo. ‘Ed è faticoso?’, incalzò il re. ‘Moltissimo’ – rispose l’operaio – non vedo l’ora di terminare per andare in pausa!’. ‘E tu cosa stai facendo?’, domandò il Re al secondo degli operai. ‘Sto facendo una colonna’ – asserì scocciato – ‘Qui il lavoro non finisce mai – esplose – e ci sono sempre un sacco di problemi, non ne posso più, non vedo l’ora di andare in ferie!’. Arrivato al terzo operaio il Re chiese: ‘Tu, infine, cosa stai facendo?’. ‘Oh Maestà’ – sorrise orgoglioso e soddisfatto – ‘io sto costruendo una Cattedrale!’”. Cosa risponderemmo noi se ci fosse fatta una domanda simile mentre siamo intenti ai nostri lavori quotidiani?